Questione di legittimità costituzionale delll’art. 147 c.p.

Tribunale di Sorveglianza di Venezia, ordinanza 13 febbraio 2013, 2013/179 SIUS

Questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 147 c.p. nella parte in cui non prevede anche il caso di rinvio dell’esecuzione della pena quando quest’ultima debba avvenire in condizioni contrarie al principio di umanità.

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Tribunale di Sorveglianza di V E N E Z I A

 

Il Tribunale di Sorveglianza, riunito in camera di consiglio il giorno 13.02.13 nelle persone di:Dott. Giovanni Maria PAVARIN Presidente Dott. Marcello BORTOLATO Magistrato di Sorveglianza Dott. Giovanni BATTILOTTI Esperto Dott.ssa Maria Pia PIVA Esperta

 

sentito il Sostituto Procuratore Generale dott.ssa Maria D’ARPA, che si è rimesso, nonché per la difesa l’avv. Diego Bonavina del Foro di Padova, di fiducia, che si è associato;

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

visti ed esaminati gli atti relativi alla procedura di sorveglianza nei confronti di XXXXXXX,detenuto nella Casa di reclusione di Padova in esecuzione della pena determinata con provvedimento di cumulo del Procuratore della Repubblica di Padova del 6.12.12 (fine pena:18.06.15), in posizione giuridica mista di “appellante” in relazione alla condanna di cui alla sentenza del Tribunale di Padova del 20.09.12 (e per tale causa sottoposto alla misura degli arresti domiciliari concessi dal Tribunale del riesame di Venezia in data 13.08.12), avente ad oggetto DIFFERIMENTO DELLA PENA EX ART. 147 C.P.

 

Ritenuto in fatto

 

Xxxxxx, detenuto nella Casa circondariale di Padova, presentava al Magistrato di sorveglianza indata 10.01.13 istanza di differimento della pena a causa delle ‘condizioni di perennesovraffollamento’ in cui versava l’istituto, evidenziando una situazione che, per il numero didetenuti ospitati nella cella (da 9 a 11 mediamente), era tale da influire negativamente sulle sue‘condizioni psicofisiche’ e rilevando come l’esecuzione della pena fosse ‘certamente contraria alsenso di umanità e avversa al principio rieducativo della pena ed al rispetto della persona’.Per l’applicazione della norma che regola le ipotesi di differimento della pena (nel caso di specie‘facoltativo’ ex art. 147 c.p.) é necessaria - subco. 1 n. 2) art. cit. - l’esistenza di una ‘grave infermità fisica’ del soggetto che comporti, secondo la giurisprudenza corrente, il pericolo di vita o comunque la probabilità di altre conseguenze dannose, infermità che viceversa non era dedotta dall’interessato, il quale si era limitato a denunciare la cronica, e peraltro notoria, condizione di sovraffollamento dell’istituto - particolarmente grave nel caso dell’istituto ove era ricoverato (la Casa circondariale di Padova) in cui erano presenti, alla data del 31.12.12, 226 detenuti (su di una capienza regolamentare di 104); pertanto l’istanza veniva rigettata in via interinale dal Magistrato disorveglianza e rimessa, ai sensi dell’art. 684 c.p.p., alla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, competente a pronunciarsi in via definitiva sul rinvio dell’esecuzione.

 

Nelle more il detenuto veniva trasferito nella Casa di reclusione di Padova, ove ancora oggi trova ristretto, nella quale permanevano e permangono le condizioni di sovraffollamento lamentate nell’istanza (così come pacificamente emerge dalle risultanze istruttorie di ultima acquisizione: alla data dell’odierna udienza sono presenti 889 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 369).

 

Il detenuto sta espiando una pena complessiva di anni 2, mesi 8 e giorni 16 di reclusione e di giorni 16 di arresto, determinata con provvedimento del Procuratore della Repubblica di Padova del 6.12.12 (con decorrenza 27.07.12), per furto, resistenza, falsa attestazione sull’identità propria,guida in stato di ebbrezza, violazione degli obblighi inerenti la sorveglianza speciale ed evasione,con fine pena al 18.06.15.

 

Egli è inoltre nella posizione giuridica di ‘appellante’ in relazione ad un procedimento per violenza privata e per violazione degli obblighi della sorveglianza speciale, procedimento in cui è stato condannato con sentenza di I grado del Tribunale di Padova in data 20.09.12, contro cui ha interposto impugnazione, ad una pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione ed in relazione al quale è stata concessa la misura degli arresti domiciliari dal Tribunale del riesame di Venezia in data13.08.12.

 

Risulta infine destinatario della misura di sicurezza della casa di lavoro per anni 1, mesi 10 e giorni 4 giusta ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Modena del 17.10.12, da applicarsi all’esito dell’espiazione della pena (salvo, ben s’intende, riesame nell’imminenza del fine pena da parte del competente magistrato di sorveglianza).

 

Per il titolo definitivo il condannato ha fatto ingresso nella Casa circondariale di Padova il 18.09.12 e vi è rimasto ininterrottamente fino al 11.01.13 allorché veniva trasferito presso l’attigua Casa direclusione; in definitiva egli è rimasto detenuto nella Casa circondariale dal 27.07.12 al 13.08.12 ( sottoposto a custodia cautelare) e dal 19.09.12 al 11.01.13 (per il titolo definitivo) per un totale di131 giorni, venendo ospitato in due celle aventi le seguenti dimensioni (con esclusione del bagnoattiguo): mq. 23,09 (mt. 4,98 x 4,65) per 9 gg. e mq. 24,58 (mt. 5,00 x 4,93) per i restanti 122 gg. Il numero dei detenuti ospitati nelle due celle è stato mediamente di 9-10 per cella.

 

Attualmente egli si trova ristretto nella cella n. 9 del IV blocco Reparto B della Casa di reclusione, avente le seguenti dimensioni: mt. 3,92 x mt. 2,32 con una superficie abitabile di 9,09 mq. Il bagnoattiguo, cui si accede attraverso una porta che si apre verso l’interno della camera di pernottamento, presenta una superficie di 5,25 mq. Il detenuto attualmente divide la cella con altri due compagni.La cella presenta la misura ‘standard’ fissata dall’art. 2 del Decreto del Ministero della Salute del 5luglio 1975 che, valevole per le sole ‘stanze da letto’ di civile abitazione, è stata adottata dall’Amministrazione penitenziaria quale parametro di riferimento della camera di pernottamento, benchè, peraltro, ivi si svolga l’intera vita del detenuto.

 

Ciò detto si osserva che lo spazio a disposizione del Xxxxxx fin dal momento in cui ha fatto ingresso nella Casa di reclusione (e cioè da 33 gg.) è di 3,03 mq, mentre durante la permanenzanella Casa circondariale (131 gg.) egli ha usufruito di uno spazio inferiore, pari a 2,43 mq. (per 9gg.) e 2,58 mq. (per i restanti 122 gg.).

 

Nel primo caso lo spazio disponibile è di soli 3 cmq. superiore al limite minimo considerato ‘vitale’ dalle ben note pronunce della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (Sulejmanovic v./Italia del 16 luglio 2009 e Torreggiani v./Italia dell’8 gennaio2013) e nel secondo caso è inferiore. Va tuttavia considerata l’ulteriore riduzione dello spazio effettivamente utilizzabile derivante dall’ingombro costituto dalla presenza nella cella di vario mobilio e, in particolare, presso la Casa circondariale di 7 armadietti grandi (alti da terra mt. 1) dicm. 50 x cm. 35, complessivamente occupanti mq. 1,22, che riducono lo spazio disponibile nellacella fino a 21,87 mq. (per 9 gg.) e 23,36 mq. (per 122 gg.), pari rispettivamente a 2,30 mq. e a 2,45mq. per ciascun occupante; presso la Casa di reclusione di 3 armadi grandi (alti da terra mt. 1,04) dicm 49,2 x cm 37,2, per complessivi mq. 0,54, che riducono lo spazio effettivamente disponibile a8,55 mq. pari a 2,85 mq. per persona, nettamente al di sotto del limite ‘vitale’ di 3 mq. come stabilito dalla Corte europea.

 

La circostanza relativa all’ingombro del mobilio (nel caso di specie non si considerano gli altri oggetti costituenti l’arredo della cella: sgabelli e tavolino perché di fatto amovibili, utilizzati solo al bisogno e spesso riposti nel bagno e, quanto alle brande, perché utilizzate per distendersi e dunque rientranti nello spazio concretamente disponibile) non può essere trascurata tanto è vero che essa è stata espressamente evidenziata nella sentenza dell’8.01.13 della CEDU quale fattore incidente sullo spazio vitale (v. Torreggiani v./Italia, pag. 16: “Cet espace, déjàinsuffisant, était par ailleurs encore restreint par la présence de mobilier dans les cellules”).

 

In definitiva lo spazio effettivamente utilizzato oggi dal Xxxxxx è di gran lunga inferiore al limitedi 3 mq. ove si considerino gli armadietti fissi alla parete, non amovibili, e comunque, ancorchè non si volesse considerare detto ingombro, lo spazio disponibile sarebbe di pochissimo (3 cmq.)superiore a quel limite (3,03 mq.).

 

Sebbene il criterio indicato dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti(organismo istituito in seno al Consiglio d’Europa in virtù della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, ratificata dall’Italia con Legge 2 gennaio 1989, n. 7) nel 2° Rapporto generale del13.04.1991 sia di almeno 7 mq., inteso come superficie minima ‘desiderabile’ per una cella didetenzione, tuttavia la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il parametro dei 3 mq. debba essere ritenuto il minimo consentito al di sotto del quale si avrebbe violazione ‘flagrante’ dell’art. 3 della Convenzione e dunque, per ciò solo, ‘trattamento disumano e degradante’, e ciò indipendentemente dalle altre condizioni di vita detentiva (afferenti in particolare le ore d’aria disponibili o le ore disocialità, l’apertura delle porte della cella, la quantità di luce e aria dalle finestre, il regimetrattamentale effettivamente praticato in istituto).

 

Che dunque il Xxxxxx stia subendo ed abbia subito per tutto il periodo della detenzione fino ad oggi un trattamento ‘disumano e degradante’, tanto più durante la permanenza per 131 gg. nella Casa circondariale di Padova ove lo spazio disponibile era mediamente di soli 2,37 mq., ma perdurante a tutt’oggi allorchè lo spazio è di 2,85 mq., non può essere revocato in dubbio e dunque è posta in tutta evidenza una questione di compatibilità della sua detenzione con i principi di non disumanità della pena e di rispetto della dignità della persona detenuta, principi sottesi all’applicazione proprio dell’istituto del differimento della pena che viene invocato dall’interessato.Osserva il Tribunale che la necessità di dilungarsi nell’esposizione delle questioni in fatto è impostadai profili di rilevanza della questione sollevata che presuppone, com’è noto, un collegamentogiuridico fra la norma della cui costituzionalità si dubita e la regiudicanda.

 

La norma impugnata è inerente al giudizioa quoposto che il richiedente invoca la sospensione della pena proprio per l’aspetto di una sua ineseguibilità a causa delle condizioni di intollerabile restrizione alla quale èsottoposto per il sovraffollamento dell’istituto, questione rientrante, per quanto meglio si dirà sotto,nell’ambito di applicazione della norma sul differimento. La questione dedotta ha dunque nel procedimento a quo un’incidenza attuale e non meramente eventuale.

 

Sempre sotto il profilo della rilevanza della questione valgano ancora alcune considerazioni in fatto.Il detenuto non può beneficiare di altre misure che pure il nostro ordinamento ha previsto o per esigenze meramente (o prevalentemente) deflative (una fra tutte la misura temporaneadell’esecuzione della pena al domicilioexl.n. 199/10, poi modificata dalla l.n. 9/2012) o per scopidi umanizzazione ovvero, in senso lato, a fini rieducativi (che abbiano come conseguenza, seppur indiretta, quella di sottrarre il condannato a carcerazioni degradanti).Quanto alla prima, il detenuto non può beneficiarne - pur disponendo di un domicilio (circostanzaapprezzata anche dal Tribunale del riesame di Venezia nell’ambito del procedimento penale pendente allorchè gli concedeva gli arresti domiciliari) - essendo il residuo della pena superiore a 18mesi ed essendo stato il condannato dichiarato delinquente abituale con sentenza della Corted’Appello di Venezia del 2.03.93 (entrambe tali circostanze sono invero ostative alla concessionedell’esecuzione presso il domicilio ex art. 1, 1° comma e 2° comma, lett.b> l.n. 199/2010).Quanto alle seconde (misure alternative ed altri ‘benefici penitenziari’ in senso lato) si osserva che, pur tralasciando il merito della loro concedibilità (il quale implica una duplice valutazione sia del percorso trattamentale intramurario sia della prognosi di reiterazione del reato), sussistono preclusioniex legederivanti dall’applicazione, nelle condanne in esecuzione, della recidiva reiterata ex art. 99 co. 4 c.p. la quale impedisce la concessione in ogni caso della detenzione domiciliareexart. 47 ter co. 1 biso.p. (anche ove non operasse il limite temporale biennale) e che impedisce anchela concessione della semilibertà se non dopo l’espiazione di due terzi di penaexart. 50biso.p.

 

Allo stato solo la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale (peraltro non chiesta dall’interessato) sarebbe astrattamente concedibile al detenuto ma questa presuppone, com’è noto, l’apprezzamento in fatto di un percorso rieducativo per il tramite di una congrua osservazione( comma II dell’art. 47 o.p..) ovvero, anche senza osservazione, presuppone un’idoneità a prevenireil pericolo di commissione di reati, allorquando il comportamento serbato dopo la commissione delreato sia tale da consentire un giudizio favorevole (comma 3).Anche infine la possibilità di ricorrere ai permessi premio, pur con l’indiretto effetto di alleviare inqualche modo le condizioni della detenzione, è preclusa dall’art. 30quater co. 1 lett. a) che imponel’espiazione di almeno un terzo della pena nel caso del recidivo reiterato.Ciò detto, non resterebbe che ricorrere effettivamente alla norma ‘di chiusura’ - oggi invocata -costituita dal rinvio dell’esecuzione ex art. 147 c.p., istituto non a caso previsto dal codice penale (e non dall’ordinamento penitenziario) tra le norme generali sull’esecuzione della pena e che, non soggetto a preclusioni ex lege(non distinguendosi tra condannati recidivi e non recidivi, tra delinquenti abituali e non, tra tipi e durata della pena, essendo applicabile perfino ai condannati alla pena dell’ergastolo), costituisce applicazione del principio costituzionale di non disumanità della pena.

 

Tale istituto tuttavia viene riservato ai soli casi ivi elencati, da ritenersi tassativi, in cui più evidente appare il contrasto tra il carattere obbligatorio ed irrefragabile dell’esecuzione di una pena detentiva e il principio di legalità della stessa cui è speculare il divieto di trattamenti inumani ex art.27 co. 3 Cost. In particolare discende da detto principio l’esigenza che il soggetto non venga sottoposto ad una pena più grave di quella comminata: tale esigenza risulterebbe contraddetta se, per particolari condizioni ‘fisiche’ del soggetto - che la legge ha individuato in via tassativa nello stato di gravidanza o puerperio, nell’AIDS conclamato o in altra malattia particolarmente grave( art. 146 c.p.), prevedendone addirittura in questi casi l’obbligatorietà, ovvero nella condizione di madre di prole di età inferiore ad anni 3 o nello stato di infermità fisica ‘grave’ (art. 147 c.p.),rimettendo in tali ultimi casi al giudice la valutazione caso per caso - la carcerazione incidesse indefinitiva non soltanto sulla libertà ma anche sull’integrità personale.

 

Del tutto peculiare è poi l’ipotesi della domanda di grazia, in cui non sembra esservi evidenza del contrasto di cui sopra, per la quale pure è prevista la sospensione della pena (ma l’esecuzione non deve essere già iniziata e lasospensione è limitata ad un massimo di mesi 6 dall’irrevocabilità della sentenza) e che tuttaviatrova il suo fondamento unicamente nella prognosi favorevole alla concedibilità del beneficio e non a caso era riservata in origine dall’art. 684 c.p.p., prima della pronuncia di incostituzionalità, al Ministro della Giustizia (secondo l'insegnamento della stessa Corte [v. ordinanza n. 336/1999>,l’istituto ha il suo fondamento nella giusta preoccupazione del legislatore che, nelle more dell'istruttoria della pratica di grazia, il condannato possa essere sottoposto all'esecuzione della pena prima che la sua istanza venga esaminata e decisa: inconveniente, questo, che si appalesa particolarmente grave specie nel caso di pene detentive brevi).Il Tribunale di sorveglianza, adito con l’istanza indicata in narrativa, è chiamato in definitiva adover dare applicazione al principio di non disumanità della pena in un caso in cui, pur ricorrendo i parametriin fattodi un trattamento disumano e degradante, così come verificati in casi analoghidalla costante giurisprudenza della Corte europea, non si può ricorrere all’istituto delrinvio facoltativodella pena poiché, non lamentando il detenuto una ‘grave infermità fisica’ (che, nellaordinaria giurisprudenza dei Tribunali di sorveglianza e della Suprema Corte, è integrata solo dauna malattia oggettivamente grave per la quale sia possibile fruire, in libertà, di cure a trattamentisostanzialmente più efficaci di quelli assicurati in ambito penitenziario), tale ipotesi non si trovaricompresa tra quelle tassativamente previste dalla norma. La disposizione in oggetto, anche inquanto norma “di chiusura” del sistema - ove ogni altra via fosse preclusa o inefficace (“ si alia actio non erit ”, proprio come nel caso in esame ) - costituirebbe invece, se integrata dalla pronunciaqui richiesta, l’unico strumento di effettiva tutela in sede giurisdizionale al fine di ricondurrene ll’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena a fronte di condizioni detentive che sirisolvono in trattamenti disumani e degradanti.Osserva inoltre il Tribunale che da un lato il trattamento inumano non potrebbe tollerare una suaindebita protrazione e che, dall’altro, si deve registrare la sostanziale ineffettività della tutelariconosciutain subiecta materiadagli attuali presidi giuridici a disposizione della magistratura di sorveglianza (v. artt. 35 e 69 legge 26 luglio 1975, n. 354, pur incisi dalla sentenza di codesta Corten. 26/1999): l’attuale sistema, pur prevedendo in capo alla magistratura di sorveglianza la tutela deidiritti dei detenuti in sede di reclamo giurisdizionale, rimane pur sempre privo di qualsivogliameccanismo di esecuzione forzata, finendo dunque per generare quei fenomeni di ineffettività dellatutela che sono la negazione del concetto stesso di giurisdizione.

 

Né può esimersi il Collegio dall'osservare come sia fin qui rimasto inascoltato il monito rivolto da codesta Corte al legislatore con la citata sentenza n. 26/1999, con la quale il Parlamento era stato invitato a prevedere forme di tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale, con la conseguenza che la sopra richiamata competenza in materia di tutela dei diritti in capo allamagistratura di sorveglianza non solo è monca, perché priva dei meccanismi dell’esecuzioneforzata, ma può ritenersi oggi sussistente solo in virtù del diritto vivente (v. Cass., sez. unite n.25079 del 26.2.2003, Rv. 224603, Gianni), e non perché il legislatore abbia fin qui riempito, decorsi ben quattordici anni, il vuoto creato con la fondamentale pronuncia. Si vedano d’altronde le acutenotazioni della CEDU, contenute nella citata sentenza Torreggiani v./Italia, la quale obbliga lo Statoitaliano a dotarsi di un sistema di ricorsi ‘interni’ contro le violazioni dell’art. 3 della Convenzione idonei a garantire degli effettivi rimedi ‘preventivi’ e non solo ‘compensatori’ (risarcimento de ldanno).

 

Ipotizzando d’altronde che il ricorrente avesse adito il magistrato di sorveglianza non chiedendo il differimento dell'esecuzione ma semplicemente invocando la tutela del proprio diritto all'esecuzione di una pena non disumana, e anche a voler concedere che tale magistrato in accoglimento del ricorso avesse ordinato il trasferimento del ricorrente presso una stanza detentiva non sovraffollata, non è chi non veda come, rendendo conforme al senso di umanità l'esecuzione penale nella cella ad quam, ciò avrebbe comportato la disumanità dell'esecuzione della pena nella cella a qua, nella quale subito l’Amministrazione avrebbe allocato altro detenuto per far posto al ricorrente vittorioso nella prima, e così via: poiché appartiene al fatto notorio la circostanza che la capienza (sia regolamentare sia tollerabile) degli istituti di pena italiani è di gran lunga inferiore rispetto alla grandezza delle effettive presenze, tale strumento di tutela sarebbe comunque rimasto inefficace.

 

Tornando ora all’art. 147 c.p., va osservato che la norma invocata prevede il rinvio “facoltativo”rimettendo pertanto la decisione al prudente apprezzamento del Tribunale di sorveglianza che può da un lato negare il provvedimento ‘se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti’ e che, dall’altro, può concedere in sua vece, anche oltre i limiti ‘edittali’ dell’art. 47ter o.p., la misuradella detenzione domiciliare ex art. 47 ter co. 1ter o.p. (cd. detenzione domiciliare “in surroga”),stabilendo un termine di durata che può essere prorogato anche fino al termine della pena. In altre parole è rimesso all’autorità giudiziaria, a differenza dei casi di differimento ‘obbligatorio’ (art. 146c.p.), il congruo bilanciamento degli interessi da un lato di non disumanità della pena e dall’altro di difesa sociale che, in casi di particolare pericolosità del condannato, potrebbe impedire - pur difronte ad una rilevante compromissione dell’integrità personale del soggetto detenuto (o ne iconfronti della madre di prole inferiore ad anni 3) - il differimento dell’esecuzione. Nel caso di specie va osservato che al richiedente potrebbe essere accordato il differimento, anche nelle forme eventuali della detenzione domiciliare ex art. 47 ter co. 1ter o.p., poiché il pericolo di commissione di delitti non appare ‘concreto’, potendo la residua pericolosità essere contenuta dai limiti e dalle vincolanti prescrizioni, appunto, di una detenzione domiciliare ‘in surroga’ -disponendo egli di un effettivo ed idoneo domicilio e di un nucleo familiare disposto ad ospitarlo(costituito da moglie e figlia) - ed essendo assistito da una prognosi di ricaduta nel reato non totalmente negativa. Il richiedente infatti, pur avendo riportato numerose condanne in passato(come si evince dalla lettura del suo certificato penale) ed essendo stato dichiarato delinquenteabituale (con conseguente applicazione della misura di sicurezza della casa di lavoro) non si è maireso responsabile di gravi reati contro la persona (tranne una lesione personale nel 2001), avendo riportato perlopiù condanne per reati contro il patrimonio (furto e ricettazione) ed avendo commesso, a parte l’episodica evasione dagli arresti domiciliari del settembre 2012, il delitto più recente nel giugno scorso, consistito nella mera violazione dell’obbligo di dimora.

 

Va infine sottolineato come anche il Tribunale del riesame abbia effettuato di recente una valutazione di contenuta pericolosità concedendo gli arresti domiciliari al Xxxxxx nell’ambito del procedimento pendente, non ancora definito, e dunque confidando nelle sue capacità autocustodiali.

 

Infine deve essere apprezzato il giudizio emergente dalle relazioni comportamentali in atti della Casa circondariale e della Casa di reclusione nelle quali viene evidenziato “un mutato atteggiamento riguardo alle regole” avendo il condannato “dimostrato disponibilità nel porsi in relazione e volontà di analizzare in modo critico il proprio vissuto” ed avendo mantenuto fin dal suo ingresso “condotta regolare, priva di rilievi disciplinari”.In altre parole, ove la norma consentisse il differimento della pena per ineseguibilità di quest’ultimaa causa delle condizioni di intollerabile sovraffollamento tali da comportare trattamento ‘disumano e degradante’, tale differimento nel caso di specie non verrebbe impedito dal divieto di cui al comma quarto dell’art. 147 c.p. non potendosi ritenere concreto il pericolo di commissione di delitti.

 

Ciò premesso, l’istituto della sospensione della pena non può viceversa trovare applicazione nel caso in esame frapponendosi l’ostacolo ‘giuridico’ costituito dalla mancata previsione, nella norma che qui si intende denunciare di illegittimità costituzionale, di un’ipotesi di rinvio facoltativo,rimesso alla prudente valutazione dell’autorità giudiziaria, allorchè ricorrano gli estremi di untrattamento disumano e degradante come definito dalla giurisprudenza europea sopra richiamata.

 

Considerato in diritto

 

Ritiene il Tribunale non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - che solleva d’ufficio - della norma di cui all’art. 147 c.p. nella parte in cui non prevede, oltre alle ipotesi espressamente indicate, da ritenersi tassative, anche il caso di rinvio dell’esecuzione della pena quando quest’ultima debba avvenire in condizioni contrarie al principio di umanità come sancito dagli artt. 27 cpv. II Cost. e 117 co. 1 Cost. nella parte in cui, con riferimento a quest’ultima norma,viene recepito l’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (divieto di trattamenti disumani e degradanti), ratificata con legge 4 agosto 1955 n. 848, e nell’interpretazione a sua volta fornita dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo che ha individuato i parametri di vivibilità minima secondo i quali una detenzione può definirsi ‘trattamento inumano o degradante’.

 

L’attribuzione di pieno valore giuridico alla Carta dei diritti fondamentali dell'uomo (art. 6, co. 1 TUE Trattato di Lisbona: “ L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”) e l'adesione dell' Unione alla CEDU ( art. 6, co. 2, TUE: “ L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali [….> I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali”) determinano com’è noto un vincolo diretto negli ordinamenti interni al rispetto della dignità e dei diritti delle persone, con particolare riguardo ai soggetti che risultano a rischio, e che consente ai giudici nazionali di invocare le norme sovranazionali - fatte proprie dal Trattato e come interpretate dalle Supreme Corti - come ulteriori parametri di riferimento quando si facciaquestione di diritti fondamentali.

 

Le norme cc.dd. “interposte” divengono a loro volta canone divalutazione e dunque entrano a far parte interamente di uno dei termini della questione dicostituzionalità. La norma dell’art. 147 c.p., nella parte in cui esclude la propria applicabilità all’ipotesi qui considerata, parrebbe dunque porsi in contrasto col principio inviolabile della dignitàdella persona che la Repubblica in ogni caso garantisce a norma dell’art. 2 Cost. e che a sua volta è presupposto dell’art. 27 Cost.6 La questione appare rilevante - per quanto sopra chiarito nelle considerazioni in fatto - posto che nel caso concreto il Tribunale dovrebbe fare applicazione, non potendo ricorrere ad altro istituto giuridico idoneo a ripristinare una situazione di evidente violazione dei principi di legalità nell’esecuzione, della norma ‘di chiusura’ sul differimento facoltativo dell’esecuzione,eventualmente nelle forme della detenzione domiciliare ‘in surroga’, e tuttavia non potendovi ricorrere poiché essa esclude la sua applicazione oltre i casi tassativamente previsti.Si osserva che tale norma di per sè sola renderebbe compatibile l’esecuzione penale col principio di non disumanità laddove, a causa del sovraffollamento dell’istituto ove il condannato è recluso, non venisse assicurato lo spazio minimo vitale e ciò senza abdicazione dell’obbligatorietà dell’esecuzione del giudicato (posto che nel caso di specie potrebbe essere concessa la misura domiciliare).Peraltro il Tribunale non può sottrarsi dal percorrere la strada dell’interpretazione conforme a Costituzione prima di rimettere la questione alla Corte costituzionale poiché ciò costituirebbe una rinuncia alla propria indeclinabile funzione ermeneutica.

 

Il giudice infatti è chiamato a ricorrere all’impugnativa solo dopo aver verificato, anche con l’ausilio del ‘diritto vivente’, la possibilità di giungere ad una lettura della norma che, nel rispetto dei comuni canoni ermeneutici, consenta di intenderla in armonia con la Costituzione. Peraltro va subito osservato che non ci si trova di frontead una disposizione legislativa ‘polisensa’, ipotesi in cui il principio dell’interpretazione adeguatrice sprigiona tutte le sue potenzialità, ma ad una norma che prevede casi tassativi di univoca interpretazione (si veda per tutte Cass., Sez. I, 8.05.89 n. 1292), non estensibili in via analogica per il divieto di cui all’art. 14 prel. (norma eccezionale alla regola generale sull’indefettibilità dell’esecuzione penale).In particolare non può estendersi l’applicazione della norma oltre l’ipotesi specificamente prevista della ‘ grave infermità fisica’ prevista dal n. 2 del comma 1 che viene comunemente intesa, nella giurisprudenza ormai consolidata, come una situazione di grave compromissione dell’organismo comportante o un serio pericolo per la vita del condannato ovvero la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose.

 

La serietà del quadro patologico deve essere intesa poi in senso particolarmente rigoroso tenuto conto del principio di indefettibilità della pena e del principio di uguaglianza. Ulteriore requisito consiste nell’esigenza che la malattia necessiti di cure che non si possano facilmente attuare nello stato detentivo.Per quanto attiene alle condizioni ‘psicologiche’ si osserva che per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte eventuali disturbi di natura psichica che non si traducano in concreto in grave infermità fisica non sono idonei a giustificare il differimento della pena (cfr. Cass. Pen. Sez. 1, n.25674 in data 15.04.2004, Rv. 228132, Petruolo; Cass. Pen. Sez. 1, n. 41986 in data 04.10.2005,Rv. 232887, Veneruso; ecc), posto che in tal caso si imporrebbero le misure di cui all'art. 148 c.p..Pur nell’alveo di una interpretazione conforme a Costituzione non si può pertanto né ampliare in via analogica le ipotesi di differimento della pena né estendere il concetto di ‘grave infermità fisica’fino al punto di ricomprendervi i casi di una compromissione dell’integrità psico-fisica della persona detenuta che sia conseguenza non di uno stato patologico ma di una condizione di detenzione ‘inumana’ perché al di sotto dei parametri minimi di spazio disponibile indicati dallaCorte europea.

 

Ciò detto in tema di ammissibilità e rilevanza della questione, deve ora essere specificato il petitum.Si invoca qui espressamente una pronuncia ‘additiva’ cioè una pronuncia di accoglimento di incostituzionalità della norma nella parte in cui non prevede anche la riferita ipotesi di differimento,non sussistendo in via interpretativa la possibilità per il giudice di addivenire alla medesima soluzione considerato il dato letterale della disposizione censurata. Non ignora il Collegio che la decisione di tipo additivo è consentita solo quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di una valutazione discrezionale ma consegua necessaria menteal giudizio di legittimità, sicché la Corte in realtà non crea liberamente la norma ma si limita ad individuare quella – già implicita nel sistema, e magari direttamente ricavabile dalle stesse disposizioni costituzionali di cui ha fatto applicazione – mediante la quale riempire immediatamente la lacuna.

 

Il Tribunale è parimenti consapevole che le pronunce cc.dd. ‘additive’ possono risolversi in un intervento manipolativo solo se ‘a rima obbligata’ (v. da ultimo ordinanza Corte Costituzionale n.113/12 del 18 aprile 2012), come tale consentito perché non necessariamente riservato al legislatore. Nel caso di specie invero la soluzione prospettata (prevedere il rinvio della pena nei casidi inumano trattamento come accertato secondo i parametri propri dalla Convenzione dei diritti dell’uomo vincolanti ex art. 117 Cost.) non è solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili poiché soltanto la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva (anche eventualmente nelle forme della detenzione domiciliare ‘in surroga’ ex art. 47 ter co. 1ter o.p.), rimessa – come negli altri casi di rinvio facoltativo – alla decisione dell’autorità giudiziaria, è tale da ristabilire una condizione di legalità dell’esecuzione della pena nel caso concreto, mentre tale effetto non potrebbe direttamente avere, ad esempio, un qualsivoglia provvedimento a carattere indulgenziale o deflativo, questo sì riservato al legislatore, di portata generale e applicabile in una pluralità di casi.

Si permette dunque il Collegio di evidenziare come l’addizione normativa richiesta sembri costituire una soluzione costituzionalmente dovuta che non eccede i poteri di intervento della Corte e non implica scelte affidate alla discrezionalità del legislatore perché incide su una norma cardine di sistema, prevista dal codice penale, diretta a ricondurre ai principi di non disumanità la pena detentiva ove la legalità stessa dell’esecuzione venga messa in discussione da condizioni estreme di sovraffollamento carcerario.

 Del resto - come già si è più sopra osservato - la stessa pronuncia della CEDU (Torreggianiv./Italia) impone allo Stato, in tutte la sue articolazioni (compreso il potere giudiziario: giudici e pubblici ministeri espressamente indicati), l’adozione di misure necessarie ad ovviare alla violazione non solo assicurando un adeguato ristoro per le lesioni già subite ma anche ponendo finealle violazioni, con l’invito agli Stati membri di dotarsi di un sistema di ‘ricorsi interni’ idonei tanto a garantire un rimedio preventivo conto le violazioni dell’art. 3 della Convenzione quanto un rimedio compensatorio in casi di avvenuta violazione, ricorso ‘interno’ che, a parere di questo Tribunale, potrebbe proprio consistere nel procedimento di rinvio facoltativo della pena ex art. 147c.p. da integrare con l’addizione normativa qui richiesta nel ‘verso’ sopra specificato.

Sulle disposizioni costituzionali che si assumono violate, ritiene il Tribunale che la norma in questione si ponga in contrasto innanzitutto con l’art. 27 della Costituzione sotto il duplice profilo del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e del finalismo rieducativo. Sul punto si osserva la prevalenza in ogni caso del primo dei valori affermati rispetto al secondo:mentre la pena infatti non ‘ può’ consistere in un trattamento contrario al senso di umanità, essa nel contempo ‘deve’ tendere alla rieducazione del condannato con ciò significando che mentre la finalità rieducativa rimane nell’ambito del ‘dover essere’ e quindi su un piano esclusivamente finalistico (‘deontico’) -la pena è legale anche se la rieducazione verso la quale deve obbligatoriamente tendere non viene raggiunta- viceversa la non disumanità attiene al suo essere medesimo (piano ‘ontico’) -la pena è legale solo se non consiste in trattamento contrario al senso di umanità- di talchè la pena inumana è ‘non pena’ e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti icasi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità del condannato.

Deve allora chiedersi quando la pena si svolga in tali condizioni. Non può che farsi riferimento, per quanto qui interessa, alla norma ‘interposta’ dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo così come interpretata dalla Corte di Strasburgo (da ultimo nella citata sentenza del gennaio scorso) che ritiene tout court integrato il carattere disumano e degradante del trattamento penitenziario laddove alla persona detenuta sia riservato uno spazio nella camera di detenzione inferiore o pari a mq. 3, indipendentemente dalle condizioni di vita comunque garantite in istituto(numero delle ore d’aria e di apertura delle porte, attività scolastiche o lavorative, possibilità di svolgere attività di svago in locali comuni) essendo di per sè violazione ‘flagrante’ dell’art. 3 uno spazio minimo inferiore a quel dato numerico. La norma qui censurata si pone pertanto in contrasto anche con l’art. 117 Cost. che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali conseguente al pieno valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali dell'uomo e all'adesione dell' Unione alla CEDU (ex art. 6, co. 1 e 2, TUE).

Sussiste infine la violazione dell’art. 2 Cost. nella misura in cui la dignità umana, la cui primazia trai valori costituzionali pare indiscutibile (art. 3 : “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”) - tanto da essere anteposta nella stessa norma addirittura all’eguaglianza ed alla libertà - è da intendersi diritto inviolabile, presupposto dello stesso articolo 27 Cost. L’art. 27 viene violato anche sotto il profilo del finalismo rieducativo. Ogni pena eseguita incondizioni di ‘inumanità’ non può mai dispiegare pienamente la sua finalità rieducativa poiché larestrizione in spazi angusti, a ridosso di altri corpi, produce invalidazione di tutta la persona equindi deresponsabilizzazione e rimozione del senso di colpa non inducendo nel condannato quel significativo processo modificativo che, attraverso il trattamento individualizzato, consente l’instaurazione di una normale vita di relazione.

Osserva infine il Tribunale, sotto un ulteriore profilo che attiene alla razionalità giuridica e alla coerenza costituzionale, come non siano mancati precedenti anche in altri ordinamenti - non sospettabili di insensibilità alle esigenze di sicurezza - in cui si sia fatta applicazione proprio dello strumento del differimento o della sospensione della pena per ricondurre ad una situazione di legalità l’esecuzione della pena detentiva in situazioni di palese violazione del divieto di ‘penecrudeli’. Nel 2009 una Corte federale della California, accogliendo due ricorsi di reclusi contro lecondizioni di detenzione, ha intimato al governatore di ridurre la popolazione carceraria di un terzo entro due anni, in ossequio all’ottavo emendamento della Costituzione statunitense che vieta le pene crudeli e nel 2011 la Corte suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto la correttezza della decisionedella Corte federale. In quello stesso anno, la Corte costituzionale tedesca si è pronunciata sul ricorso di un detenuto contro la Corte di appello di Colonia, che aveva negato il sostegno economico necessario ad attivare un procedimento relativo alle condizioni di carcerazione cui era costretto, richiamando una precedente sentenza della Corte federale di giustizia del 2010 in basealla quale ogni reclusione “disumana”, allorchè soluzioni diverse si rivelino improponibili, deveessere interrotta.Sussistono in definitiva ragioni di contrasto della norma contenuta nell’art. 147 c.p. con gli artt. 27,117, 2 e 3 Cost. e pertanto va sollevata d’ufficio la questione di illegittimità costituzionale.

P. Q. M.

Visti gli artt. 134 della Costituzione, 23 e ss. legge 11 marzo 1953, n. 87;dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 147 c.p nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati, l’ipotesi di rinviofacoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al sensodi umanità, per violazione degli artt. 27, co.3, 117, co. 1 ( nella parte in cui recepisce l’art. 3 dellaConvenzione europea sui diritti dell’uomo del 4 novembre 1950, ratificata con legge 4 agosto 1955n. 848, e nell’interpretazione a sua volta fornita dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di‘trattamento inumano o degradante’ ), 2 e 3 Cost .Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.Sospende il procedimento in corso sino all’esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza di trasmissione degli atti sia notificata alle parti in causa ed al pubblico ministero nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Padova, li 13 febbraio 2013

Il Presidente

dott. Giovanni Maria Pavarin

Il Magistrato est.

dott. Marcello Bortolato