Dei compensi professionali e della dignità

".. dalla dignità economica dei compensi degli avvocati passa l’effettività della loro autonomia ed indipendenza"

 

TRIBUNALE DI TRENTO

Causa Civile sub R.G.  XXXX/14

COMPARSA CONCLUSIONALE

per avv.  Paolo Chiariello e avv. Monica Cappello, rappresentati e difesi da se stessi ex art. 86 c.p.c.

 

 “Dove finisce la santa fierezza che comanda di non piegar la schiena di fronte alla soperchieria, e dove comincia la bassa e petulante litigiosità, che rifugge da ogni senso di sociale tolleranza e di comprensione umana? E’ questo uno dei più difficili problemi che ogni giorno tormentano la coscienza dell’avvocato: il quale sa che tradirebbe il suo ufficio se incoraggiasse il rissoso a litigare a vuoto, ma sa che la tradirebbe anche più gravemente se deprimesse nel cuore del giusto l’eroica intenzione di battersi a proprio rischio per la giustizia”

Piero Calamandrei

 

“L’avvocato non deve richiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati all’attività svolta o da svolgere”.

Codice Deontologico Forense, art. 29 comma 4

 

Come penalista, credo che la migliore definizione del metodo teleologico di interpretazione delle norme – ultima parte del primo comma dell’art. dodici delle preleggi – l’abbia data Antolisei che, sicuramente pedante come chi scrive, ne attribuiva l’origine niente meno che a Paolo di Tarso: “Il metodo teleologico, al contrario, pur riconoscendo che la lettera della legge costituisce un limite che l’interprete non può in alcun caso superare, attribuisce un peso prevalente allo scopo (telos) della norma. (omissis) A nostro avviso è [questo] metodo quello che deve essere seguito, per la ragione fondamentale e decisiva che le parole sono soltanto simboli del pensiero: sono, cioè, semplicemente il mezzo per rendere riconoscibile la volontà. Siccome il mezzo va subordinato allo scopo e quello che veramente conta è la volontà, il contenuto deve trionfare sulla forma, il pensiero sulla squama verbale. Anche questa idea trovasi scolpita nel diritto romano: prior atque potentior est quam vox mens dicentis. Essa ricorre spesso nella storia del pensiero umano e l’apostolo Paolo la espresse in modo superbo con le memorande parole: littera occidit, spiritus autem vivificat”[1].

Esagerato far riferimento alla seconda lettera ai Corinzi per una picciol cosa come questa, vil pecunia da procedimento sommario di cognizione[2]?

Ma siamo davvero sicuri che sia proprio così? Se i sottoscritti AVVOCATI hanno ritenuto di dover investire direttamente il locale Consiglio dell’Ordine è perché – per i motivi di seguito sunteggiati – sono fermamente convinti che dalla retribuzione del lavoro dell’avvocato dipenda “l’indipendenza e l’autonomia degli avvocati, indispensabili condizioni della difesa e della tutela dei diritti” [3].[4]

Che l’indipendenza e l’autonomia dipendano anche dal portafoglio, dovrebbe essere cosa nota, soprattutto alla Magistratura[5]. Ed è cosa desiderabile, oltre che per l’intera collettività, soprattutto per i magistrati, posto che “solo dove gli avvocati sono indipendenti, i giudici possono essere imparziali”[6]

E che, soprattutto al giorno d’oggi, una malintesa[7] applicazione delle regole del mercato con riferimento ai servizi legali rappresenti uno dei fattori di degenerazione della giustizia, specie civile, italiana è cosa nota proprio a magistrati impegnati nel dibattito culturale[8]. Ed anche ad istituzioni, come la Banca d’Italia, che misurano le distorsioni sull’intero sistema economico di tutte le numerosissime arretratezze culturali del nostro paese, a cominciare da quella che sta all’origine della nostra piccola vicenda: “La scarsa performance del sistema giudiziario italiano risente sia di carenze dal lato dell’offerta sia di un eccesso di domanda. (omissis). Tra i fattori che possono contribuire a spiegare l’elevata litigiosità in Italia figurano la qualità della legislazione sostanziale[9] e processuale e gli incentivi degli avvocati. (…)L’elevato numero di avvocati, invece, intensificando la concorrenza nel mercato dei servizi legali può indurre gli operatori a sfruttare le asimmetrie informative nel rapporto con i clienti, stimolando la domanda per i propri servizi anche laddove ciò non rientri negli nell’interesse di questi ultimi[10]

L’avvocatura, lo “sterco del diavolo” ed il cappotto di De Nicola

Chi scrive ritiene, come ripetutamente sottolineato, che la presente picciol cosa abbia un significato simbolico che va assai più in là delle somme in gioco per il singolo avvocato (soprattutto tenendo conto che, come sottolineato a pag. 17 della Comparsa di costituzione e risposta, sarebbe stato possibile definire l’intera vicenda con un compenso “in nero”  che, esentato dal 68 % di carichi fiscali e previdenziali vari, sarebbe stato del tutto soddisfacente per il sottoscritto…). Ed il simbolo, nella vita di una comunità, assume un valore fondamentale, laddove esso “è il punto di passaggio dalla soggettività all’oggettività dei significati. Attraverso il simbolo, il singolo dischiude la visuale a un mondo che è suo, ma non soltanto suo: è comune, crea e riflette comunanza di credenze e comunità d’esperienze”[11].

D’altra parte, nell’ambito pubblico la giustizia appare essere da sempre uno dei campi elettivi di manifestazione dei simboli, così da far scrivere ad uno dei massimi storici italiani viventi che “il bisogno di pensare per immagini ha nella giustizia un punto di riferimento speciale”[12]. Ciò è tanto vero che neppure i positivisti   riescono a sottrarsi – proprio su uno dei punti nodali del “fare giustizia” – alla tentazione di farvi ricorso.[13]

Ebbene, l’aneddoto sul cappotto rivoltato del Capo provvisorio dello Stato e primo Presidente della Corte Costituzionale[14] appare a chi scrive paradigmatico di un certo modo di intendere l’avvocatura, soprattutto se paragonato al noto episodio delle cronache di qualche anno fa riferito alla vasca delle aragoste di Cesare Previti.

Ma, se quella idea di avvocatura era funzionale ad una realtà in cui la stessa, comunque, si sottraeva - per gli stessi principi che ne informavano allora la disciplina[15], in uno con il numero degli esercenti la professione, assai lontano dai numeri odierni -  alle stringenti regole del mercato, diversa è la realtà normativa odierna (rectius: quella in vigore al momento della conclusione dell’incarico professionale in questione) e diverso è, per dirla con Antolisei, il telos che la sorregge.

Ciò risulta evidente dalle articolate disposizioni comprese nell’art. 13 della l. 247/12, dalle quali si ricava agevolmente che le prestazioni difensive devono essere valutate secondo criteri economici, di mercato appunto, anche quando sia necessario, in via suppletiva, ricorrere ai c.d. parametri.

La “benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio[16]” e la parcella dell’avvocato. Ovvero Adam Smith contro Renato Carosone

Ebbene, andiamo a concludere questa conclusionale, rimandando per i tecnicismi a quanto già esposto ad nauseam nei precedenti scritti difensivi e, soprattutto, a quanto ritenuto dal locale Consiglio dell’Ordine (vedi infra) in sede di opinamento della parcella.

Se le prestazioni professionali dell’avvocato sono oggi o direttamente frutto di contrattazione o, in via sussidiaria, frutto di parametri che dovrebbero rispecchiare il valore di mercato di quelle stesse prestazioni, così sia, purché ciò non sia solo la solita, parodistica idea di mercato all’amatriciana, alla “Tu voi fare l’americano, ma si’ nato in Italy” (naturalmente con i soldi della “borsetta di mammà”…), che a volte sembra far capolino nella normativa che ne occupa (quantomeno nella lettera)  così come in alcuni interventi del garante della concorrenza e del mercato: “Noi affidiamo la nostra salute al medico; il nostro patrimonio e talvolta la nostra vita e la nostra reputazione all’avvocato e al procuratore. Non si potrebbe senza rischio riporre tanta fiducia in persone di assai vile o bassa condizione. La loro remunerazione deve quindi essere tale da consentire loro quel rango sociale che una fiducia così importante richiede. Il lungo tempo e la grande spesa che la loro istruzione comporta uniti a questa circostanza elevano necessariamente anche di più il prezzo del loro lavoro”[17].

Il convitato di pietra

Sono consapevole che l’estenuato lettore, se avrà avuto la bontà di seguirmi sino a questo punto mi starà augurando, in cuor suo, di sprofondare con tutta la seggiola “donde escono quei vortici di foco pieno d’orror[18]”.

Ma qui non si intende, all’evidenza, far riferimento allo “sbirro soprannaturale”[19]. Qui, al contrario, si intende far riferimento al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trento, che ha opinato la parcella precisamente secondo la richiesta avanzata nel decreto ingiuntivo opposto.

Non è, evidentemente, parte processuale né potrebbe esserlo nel presente procedimento. Eppure esso è ente pubblico istituito “per garantire il rispetto dei principi previsti dalla presente legge e delle regole deontologiche, nonché con finalità di tutela dell’utenza e degli interessi pubblici connessi all’esercizio della professione e al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale” (art. 24 comma 3 L. 247/12).

Quale sarebbe il corollario di una smentita radicale dei criteri utilizzati per opinare la parcella in parola, dopo una lunga ed articolata trattazione in contraddittorio con l’odierna attrice opponente?

Quali sarebbero i corollari logici da riconnettersi, sul piano disciplinare, a carico del sottoscritto che, evidentemente, avrebbe violato patentemente la regola deontologica contenuta nell’articolo 29 comma 4 del Codice Deontologico Forense richiamata nell’esergo del presente atto?

Come detto, per tutto quanto riguarda “leggi, leggine, regolamenti e finanche circolari”[20] si rimanda agli atti già versati in causa.

Con osservanza.

Trento, 23 ottobre 2015

Avv. Paolo Chiariello                                                  avv. Monica Cappello

 

 



[1] F. Antolisei, Manuale di diritto penale – parte generale, Milano 1985, pagg. 76 - 77

[2] “Non è solo letteratura. Sono questioni capitali, sia sul piano teorico che su quello pratico della politica e della giurisdizione. E’ paradossale che esse siano sollevate dalla letteratura, ma siano ignorate nelle scuole di diritto. Anzi, non è affatto paradossale: è la logica conseguenza della riduzione della giustizia e del diritto alla legge positiva. I positivisti giuridici si saziano di leggi, leggine, regolamenti e financo circolari ma, per cercare di capirne davvero qualcosa non sanno che farsi di Dostoevskij, Miller Shakespeare e Brecht, per ricordare soltanto i nomi che hanno fatto qui la loro comparsa” G. Zagrebelsky, “Intorno alla legge – Il diritto come dimensione del vivere comune”, Torino 2009, pag. 381

[3] Art. 1 comma 2 lettera b) L. 247/12. L’indipendenza e l’autonomia dell’avvocato è peraltro ribadita – quale concetto chiave della professione forense, anche nei successivi articoli 2 comma 1 e 3 comma 2

[4] Spesso in un “paese a civiltà limitata” ( Paolo Sylos Labini dixit, tanto per stare, con i citati Zagrebelsky , Borgna e Calamandrei sempre nell’alveo del pensiero liberal – gobettiano - azionista che da quasi un secolo pone con forza il problema del “carattere italiano”, peraltro in ottima compagnia  - si pensi a Banfield!) si travestono verbalmente di nobili finalità i più biechi interessi materiali, con perfetta osservanza della volteriana definizione di ipocrisia. Ma la contestuale rinuncia al compenso ed all’iscrizione all’elenco per quello che fu il “gratuito patrocinio” – vedasi appendice – in virtù della quale lo scrivente ritenne di dover manifestare con forza il proprio dissenso a fronte della liquidazione del compenso per un patrocinio a spese dello stato (e quindi il presente atto rappresenta e vuol rappresentare un caso di recidiva specifica infraquinquennale a difesa della indipendenza e autonomia dell’avvocatura che, come non ci si stanca di ripetere, passa anche per la misura dignitosa dei propri compensi) dovrebbe rappresentare un elemento di coerenza tale da fugare, auspicabilmente, simili dubbi, in uno con l’ovvia consapevolezza, da parte di chi scrive, delle ovvie conseguenze che traspaiono, ex art. 96 c.p.c., dall’ordinanza dd. 23.3.15 con la proposta conciliativa ex art. 185 bis cod. rito ivi contenuta.

[5] Vedasi, ex plurimis, Corte Cost. Sent. 223/12

[6] Piero Calamandrei, “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, Milano 1999 , prefazione alla seconda edizione, pag. XXVIII

[7] Vedi infra pagg. 6 e 7

[8] Paolo Borgna, “Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore”, Roma – Bari 2008, pagg. 79 – 80 “I veri mali che affliggono la funzione sociale dell’avvocatura sono, ancora oggi, quelli di sempre, anche se si presentano con vesti nuove. (omissis)Circa la metà degli avvocati vive oggi con nomine d’ufficio o grazie al patrocinio per i non abbienti pagato dallo Stato. E’ una condizione di precarietà che li rende, anche come soggetto sociale, enormemente diversi dagli avvocati di un tempo, i quali potevano permettersi il lusso di scegliere il cliente accettando o rifiutando gli incarichi che venivano loro proposti. La concorrenza sempre crescente, aumenta le difficoltà economiche di un’ampia fascia di avvocati giovani e dilata la tentazione di cedere a quei vecchi vizi della professione con cui spesso viene tratteggiata la caricatura dell’avvocato: tradire la linea guida dell’indipendenza; interpretare in modo distorto la doverosa lealtà verso il proprio assistito, facendola sconfinare nella violazione delle regole, praticare una concorrenza a basso prezzo basata sulla sciatteria nello studio degli atti e nel reale esercizio della difesa; trascurare l’aggiornamento professionale. (omissis) Il servizio offerto dagli avvocati consiste nell’aiutare il cittadino a tutelare i propri diritti: non può essere trattato come una merce da supermercato”.

[9] Un esempio, azzeccatissimo nel caso presente, è la sciatteria del DM 140/2012 …

[10] Così Banca d’Italia, “La qualità dei servizi pubblici in Italia”, Gennaio 2011, pagg. 13 - 14

[11] G. Zagrebelsky, Simboli al potere, Torino 2012, pag. 13

[12] Adriano Prosperi, Giustizia bendata – Percorsi storici di un’immagine, Torino 2008, pag. XVII

[13] “La questione che occupa il diritto naturale è l’eterno problema di che cosa si celi dietro il diritto positivo. Ma chi cerca una risposta trova, temo, non la verità assoluta d’una metafisica o l’assoluta giustizia di un diritto naturale. Chi solleva il velo e non chiude gli occhi incrocerà lo sguardo fisso della testa di Gorgone del Potere”. Così Hans Kelsen, “Intervento sulle relazioni di Erich Kaufmann e Hans Nawiasky” citato da Marco Revelli, I demoni del potere, Roma – Bari 2012, pag. 3

[14] Una delle più belle narrazioni dell’episodio è rinvenibile in Salvatore Maria Sergio, Elogio dell’avvocato, Napoli 2007, pagg. 12 e 13 : “Aveva sempre esercitato l’”Avvocazione” (così piaceva dire a Francesco D’Andrea, “soprammodo ornato di giurisprudenza e filosofia”) più contento della gratitudine dei clienti che dei guadagni, Don Enrico. Presidente della Repubblica, aveva chiuso lo studio di via Rettifilo, in affitto dal “Risanamento”, e ricusato la lista civile e la scorta, sicché al termine del mandato s’era ritrovato con le finanze ridotte al lumicino. Era, come disse il Presidente del Senato commemorandolo, “di una signorile povertà, che nascondeva come avrebbe nascosto la ricchezza se l’avesse posseduta”. Tornato alla professione, ritenne che, avendo ricoperto la suprema magistratura della Repubblica, per integrare l’assegno parlamentare fosse decoroso accettare soltanto qualche ricorso in Cassazione. Costretto al risparmio, un giorno mandò al sarto il cappotto perché lo rivoltasse: al fattorino che l’aveva riconsegnato chiese il conto, ma quegli gli disse che occorreva rivolgersi al principale. Per lettera lo chiese, De Nicola, ma il sarto tacque. Seconda missiva, ancora silenzio. Alquanto piccato, mandò una persona ad esternare il suo disappunto per quel silenzio che riteneva una sgarberia insolente: lapidaria la risposta dell’artigiano: “Poiché siamo al punto che il Presidente deve farsi rivoltare il cappotto, il sarto ha il dovere di non farsi pagare.””

[15] “Non si dimentichi che l’avvocatura è la sola professione nelle cui regole è scritto che, per i suoi seguaci, “il patrocinio gratuito dei poveri è un ufficio onorifico”. E’ facile fare dell’ironia sull’altruismo degli avvocati; ma chi crede che la missione di carità oggi adempiuta dai liberi avvocati possa domani essere esercitata collo stesso spirito da un corpo di funzionari tenuti soltanto alla scrupolosa osservanza dell’orario d’ufficio, non ha pensato che non si può stabilire in anticipo quali sono le ore in cui il dolore batte alle porte dell’avvocato, nel cui studio anche nelle ore notturne rimane accesa la lampada rossa, a indicare nel buio  il “pronto soccorso” delle ambascie umane”. Così Piero Calamandrei, ibidem, pag. XXXI. Sulla lampada rossa che riamane accesa in studio anche nelle ore notturne, si veda, assai più prosaicamente, con riferimento alla presente vicenda processuale, memoria della deducente parte dd. 3.11.14, pag. 9

[16] Ci si riferisce, ovviamente, alla celeberrima frase fondativa dell’idea stessa di libero mercato: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio, del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità.” Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Torino 2006 (ed or. 1776) pag. 81

[17] Adam Smith, ibidem, pag. 202 - 203

[18] W.A. Mozart – Lorenzo da Ponte, Don Giovanni, Atto secondo, scena quindicesima

[19] Così Roberto Escobar, La fedeltà di Don Giovanni, Bologna 2014, pag.  130

[20] Vedi nota 3